La divisa dell’interprete

Qualche giorno fa mia mamma mi ha raccontato una storia che mi ha fatto molto ridere. Recentemente è andata a trovare uno zio anziano che non vede molto spesso. Quando lo zio ha chiesto notizie di me, gli ha raccontato del mio lavoro e la prima domanda che lo zio le ha fatto è stata: “Ma allora porta una divisa?”. Non so quale ragionamento lo abbia portato a questa deduzione, ma devo riconoscergli il merito di avermi fatto venire l’idea di questo post, che riguarda appunto il tipo di abbigliamento che dovrebbe usare un’interprete in servizio. Uso volontariamente l’apostrofo perché mi concentrerò solo sull’interprete donna.

Partiamo dal presupposto che un’interprete viene chiamata a un evento per svolgere un ruolo molto preciso: facilitare lo scambio tra persone che non parlano la stessa lingua, quindi dovrebbe avere un’immagine professionale e discreta. Questo principio vale soprattutto quando lavoriamo in consecutiva o chuchotage, quindi consapevoli dal principio del fatto che saremo su un palco o comunque di fronte a un pubblico. Tuttavia, dovrebbe essere seguito anche quando lavoriamo in simultanea perché, anche se è probabile che saremo quasi sempre rintanati in cabina, arriverà prima o poi il momento della pausa caffè o potrebbe succedere che a causa di un problema tecnico saremo chiamati a fare chuchotage o consecutiva in sala. Ecco, in quella situazione, non è il caso di presentarsi in infradito.

Ma qual è l’abbigliamento più opportuno? Nel 90% dei casi un classico tailleur (sia gonna che pantaloni) con delle scarpe eleganti sono sempre la risposta giusta, ma vanno benissimo anche soluzioni simili. Qualche anno fa ho lavorato in un’azienda di abbigliamento e quando sono arrivata sul posto ho chiesto alla signora dell’accoglienza indicazioni per la sala precisando che ero l’interprete e lei mi ha detto: “Si vede, è proprio vestita da interprete”. Avevo un tailleur molto classico, quindi direi che ci ho preso 🙂

Detto questo, però, ci sono contesti inusuali in cui il classico tailleur potrebbe non essere la scelta giusta. Ad esempio (e qui cito situazioni reali): cantieri, discariche, fabbriche, spiagge, barche, rifugi di montagna… In questi luoghi è meglio privilegiare la praticità, ma sempre cercando di mantenere un’immagine sobria. Per non sbagliare, chiediamo al cliente o all’agenzia il luogo e le condizioni esatte dell’evento e certamente sapremo qual è l’abbigliamento più adeguato.

Il film slovacco “The Teacher”

Il 7 settembre è uscito in nelle sale italiane il film slovacco The Teacher: una lezione da non dimenticare, del regista Jan Hřebejk. La storia, ambientata nel 1983 in una Bratislava ancora sotto forte influenza sovietica, ha come protagonista una maestra che sfrutta la sua posizione di potere per trarre vantaggi personali, concedendo voti generosi agli studenti in cambio di favori da parte dei loro genitori.

Al di là della vicenda, che non può lasciare nessuno spettatore indifferente, soprattutto pensando al fatto che è ispirata a fatti veri, quello che ho apprezzato di più del film è la rappresentazione del clima di quegli anni. Ovviamente, per ragioni anagrafiche e geografiche, non ho un’esperienza personale della vita nella Cecoslovacchia degli anni ’80, ma mi è capitato molte volte di sentire racconti di chi ha vissuto quel periodo, in cui per molti regnava il costante sospetto e la paura di ritorsioni per qualsiasi azione “non conforme”, una fase storica forse ancora non del tutto metabolizzata dalla società slovacca. Lo stile del film ricorda un po’ quello adottato da Michaela Sebokova inDal diario di una piccola comunista: racconta la grande Storia attraverso una piccola storia, forse meglio di molti documentari.

C’è un’unica cosa che non mi convince: il titolo della versione italiana. Il titolo originale del film è Učiteľka, tradotto letteralmente “la maestra”, “l’insegnante” o al limite “la professoressa”. Data l’età approssimativa degli studenti io avrei optato per “La maestra”. Per quale motivo tradurlo in inglese e per di più aggiungere di sana pianta un sottotitolo (a mio avviso) totalmente fuorviante? Non so a voi, ma “Una lezione da non dimenticare” in me evoca atmosfere allegre e gioiose, mentre invece il film, pur regalando molti momenti divertenti, è fatto principalmente di tinte fosche.

Ecco qui il trailer doppiato in italiano:

 

E in slovacco con i sottotitoli in inglese per i puristi 🙂

Foto locandina: My Movies

Le interiezioni in slovacco

Le interiezioni, o esclamazioni, sono una delle parti del discorso e sono utilizzate per esprimere emozioni o stati soggettivi (qui la definizione completa del dizionario Treccani). In pratica sono quelle paroline che ci escono spontaneamente di bocca quando siamo sorpresi o scossi per qualcosa, colorando il discorso.

Ogni lingua ha le sue interiezioni e nella mia esperienza sono uno di quegli elementi che si imparano di una lingua straniera unicamente quando la si vive nella sua quotidianità e autenticità. Le interiezioni sono un tema così interessante che spesso sono oggetto di tesi di laurea o dottorato, ma in questo breve post mi limiterò a fare un piccolo elenco di quelle usate più comunemente dai parlanti di slovacco, cercando di spiegarne il significato, senza alcuna pretesa di studio scientifico.

Ach: viene utilizzato quando si apprende una notizia negativa. Ad esempio: “Ach, ho perso il treno!”. Ricorda un po’ il nostro “caspita” o “diamine”.

Ježiš Mária / Pre Boha / Bože môj: letteralmente “Gesù Maria” / “Per Dio” / “Dio mio”, sono utilizzate per esprimere sorpresa, solitamente per eventi negativi, come quando noi diciamo “Dio mio”. Esempio: “Pre Boha, perché hai un occhio nero?!”

Jaj / joj: interiezione usata quando ci si rende conto di aver avuto o dato un’informazione scorretta, come “ah, d’accordo” / “ah, giusto”. Ad esempio: “Vieni alle 3, giusto?”. “No, alle 2.30”. “Jaj! Ok, vengo a prenderti”.

Fuj: assomiglia un po’ al nostro “uffff!” quando siamo negativamente colpiti o anche disgustati da qualcosa. Ad esempio: “Fuj, che caldo che fa oggi, non si respira!”. Qui un’illustrazione.

Aha: si usa per esprimere una piacevole sorpresa, come quando diciamo “Oh, che bene!”. Esempio: “Aha, sta già arrivando l’autobus”.

Fíha!: la mia esclamazione slovacca preferita 🙂 Viene utilizzata quando si apprende qualcosa di notevolmente positivo, come quando noi diciamo “wow!” . Ad esempio: “Mia nonna mi ha regalato per Natale una Ferrari”. “Fíha! Che regalone!”.

5 stereotipi sugli interpreti

Il mondo degli interpreti è molto piccolo e paradossalmente, anche se la nostra professione ci porta tutti i giorni in mezzo alla gente, chi è fuori dal nostro settore a volte si fa idee scorrette su di noi. Negli anni mi sono imbattuta in alcune di queste idee, che a furia di essere ripetute, in alcuni casi sono diventate stereotipi. Eccone alcuni.

1. Qualsiasi bilingue può fare l’interprete

Per fare l’interprete conoscere almeno due lingue è sicuramente una condizione fondamentale, ma non sufficiente. Occorre anche avere molte altre conoscenze e competenze. Una fra tutti: bisogna studiare e padroneggiare le tecniche di interpretazione simultanea, consecutiva e di trattativa. Un bilingue parte sicuramente avvantaggiato sul fronte della competenza linguistica, ma in tutti gli altri aspetti deve faticare come tutti gli altri. Aggiungo anche che i bilingui possono persino essere svantaggiati, perché per loro la tentazione di trasportare direttamente e scorrettamente la struttura di una lingua in un’altra è più forte rispetto ai non bilingui.

2. Gli interpreti sono primedonne

Non ci nascondiamo dietro un dito: alcuni interpreti possono effettivamente sembrare un po’ primedonne. Nel nostro lavoro non è insolito incontrare scrittori, attori, politici e gente “importante” e capita di lavorare su palcoscenici di teatri prestigiosi, alla radio o in televisione. In queste situazioni può accadere che l’adrenalina ci faccia dimenticare per qualche istante che siamo lì solo per riportare il messaggio di qualcun altro e che le luci della ribalta non illuminano noi, ma la persona che accompagnamo, ma è molto importante tornare subito con i piedi per terra. Personalmente posso dire che i colleghi che stimo di più e che reputo più capaci sono invece persone molto discrete e tutt’altro che primedonne.

3. Gli interpreti si lamentano sempre

Interpretare è un’attività molto impegnativa dal punto di vista cognitivo e per svolgerla al meglio è fondamentale lavorare in condizioni adeguate. Ad esempio, se gli oratori parlano/leggono troppo velocemente o troppo lontano dal microfono, se in cuffia si sentono strani fruscii o se non si riesce a vedere l’oratore si fa molta più fatica a lavorare bene. In queste situazioni credo che non ci sia niente di male se un interprete chiede educatamente se è possibile eliminare o quantomeno ridurre questi fattori di disturbo proprio negli interessi del cliente: lo fa per offrire un servizio migliore possibile e non per il piacere di lamentarsi.

4. Gli interpreti sono degli squali

Anche in questo caso purtroppo c’è un fondo di verità. Come dicevo prima, il nostro mondo è molto piccolo e alcuni interpreti non si fanno molti problemi a fare le scarpe a colleghi per accaparrarsi un cliente. La buona notizia però è che, essendo appunto un mondo molto piccolo, prima o poi viene tutto a galla, quindi è bene non perdere di vista l’etica professionale e comportarsi in maniera corretta con tutti, clienti e colleghi, altrimenti il mercato non esiterà a tagliarci fuori. In sostanza: alcuni squali ci sono, ma hanno vita breve.

5. Gli interpreti costano troppo

In questo caso è fin troppo facile fornire argomentazioni per scardinare questo stereotipo. In Italia gli interpreti non hanno né un albo professionale, né una cassa e pagano i contributi alla cosiddetta gestione separata, come altre categorie professionali. Senza entrare troppo nei dettagli fiscali, semplifico dicendo che quasi la metà del compenso totale corrisposto dal cliente o dall’agenzia si volatilizza sottoforma di contributi INPS, ritenuta d’acconto e IVA (ad eccezione di alcuni regimi fiscali particolari). Inoltre, c’è da considerare che un interprete libero professionista lavora su base giornaliera e il numero delle giornate varia molto. Tipicamente all’inizio del percorso professionale le giornate sono molto poche e in alcuni periodi dell’anno non ci sono convegni (ad esempio agosto è quasi sempre vuoto). Ultimo punto da tenere in considerazione: la tariffa copre idealmente non solo la giornata di lavoro in sé, ma anche il tempo necessario alla preparazione.

 

 

Le parole sono importanti!

Vi è mai capitato di essere accusati da qualcuno di essere troppo puntigliosi nell’uso delle parole? A me continuamente. Di solito succede quando sento uno degli innumerevoli e inutili anglicismi tanto usati nel nostro Paese. Dato che ormai il fenomeno ha assunto proporzioni esagerate, ho deciso di ribellarmi e cerco di boicottarli il più possibile, persino i più apparentemente innocenti. Ad esempio, non ricordo quand’è stata l’ultima volta che ho detto una frase tipo: “Allora, che cosa fai questo week-end?”. Dalla mia bocca uscirà sempre e solo: “Allora, che cosa fai questo fine settimana?”

Un’altra situazione in cui spesso vengo tacciata di puntigliosità è quando vengono usate indistintamente le parole traduzione e interpretazione. Esempio tipico: “Per questo convegno avrei bisogno della traduzione consecutiva“. E’ normale e comprensibile che non tutti conoscano la differenza tra i due concetti, ma se dopo averla spiegata la reazione è: “Vabbè, non cambia niente” allora non va bene.

Ebbene, dopo anni di riflessione (non esageriamo!) sono arrivata alla conclusione che quando ci troviamo in questo tipo di situazioni e avvertiamo un imminente attacco di “precisinite” esistono due reazioni possibili, che vorrei sottoporre ai lettori di questo blog.

Reazione accesa:

 

Reazione pacata:

 

In quale vi riconoscete di più?

La lingua dei sogni

Per la prima volta oggi ho il piacere di ospitare sul mio blog un post non mio: le autrici sono Imma e Giusy, le due creatrici del blog Languajob, una comunità che connette professori, studenti e chiunque abbia esperienza, formazione o necessità nel mondo formativo delle lingue. Languajob ha l’obiettivo divulgare articoli e annunci che promuovono l’importanza tanto educazionale quanto professionale di imparare una seconda lingua. 

In questo post Imma, grande appassionata di lingue straniere, in particolare di spagnolo, racconta il suo punto di vista riguardo la lingua in cui si sogna.

Senza dover rispolverare Freud, è importante sapere che durante un sogno, la nostra mente attinge al nostro bagaglio di esperienze e ricordi, le rielabora e ce le ripresenta sotto una forma diversa. Per
questo motivo ci capita di sognare quanto gironzola nei meandri più o meno nascosti della nostra testa e dei nostri pensieri…

E’ possibile sognare in una lingua straniera, se questa è parte integrante della nostra quotidianità. Se un individuo vive in un paese estero ed è in contatto quotidiano con una lingua straniera, allora eventi del genere diventano molto più probabili. La stessa influenza linguistica può riguardare anche il flusso dei nostri pensieri: senza addentrarci nei meandri dell’antropologia culturale, possiamo affermare che l’ambiente circostante influenza molto il nostro modo di pensare, fino al punto da condizionare anche la lingua dei nostri pensieri. Quindi, per esempio, dopo il terzo mese che trascorriamo a Barcellona, ci potrà capitare di perderci in divagazioni mentali e di accorgerci improvvisamente che lo stiamo facendo in spagnolo!

Nel 1993, il ricercatore David Foulkes ha osservato e studiato i comportamenti onirici di individui con un’ottima padronanza di due lingue differenti, l’inglese e il tedesco. I risultati hanno evidenziato una certa corrispondenza tra la lingua del sogno e la lingua parlata nella fase precedente al sonno.

Quello della creazione dei sogni è un ambito che desta molta curiosità, forse anche per via di questa aura di mistero che vi aleggia intorno. Ad ogni modo numerosi studi scientifici hanno dimostrato che parlare correttamente almeno una lingua straniera aumenta la capacità di apprendimento e la velocità di comprensione, favorisce il sistema nervoso e quindi l’attività del cervello, affina l’udito e l’attenzione e può ritardare se non addirittura scongiurare, malattie come il morbo di Alzheimer e la demenza senile. Studi condotti all’università di York, Canada, e pubblicati sul Journal of Psychology and Ageing, hanno dimostrato che i soggetti tra i 30 e gli 88 anni in grado di parlare almeno due lingue erano meno a rischio di declino mentale con l’invecchiamento rispetto ad altrettanti soggetti che parlavano una sola lingua.

Il consiglio è quello di immergerci a 360° in un’altra lingua straniera, sognarla e parlarla nel quotidiano, chissà, potrebbe essere il segreto per “l’eterna giovinezza”.

L’ansia da vacanze del freelance

Le vacanze volgono al termine, ma per cercare di prolungare l’atmosfera vacanziera il più possibile, il post di oggi riguarda una patologia del freelance che si manifesta tipicamente in questo periodo: l’ansia da vacanze, detta anche ansia da abbandono del cliente.

I sintomi

Generalmente le prime avvisaglie si avvertono circa una settimana prima della data di partenza programmata, quando il freelance inizia a ricevere incarichi che è costretto a rifiutare perché sa di non poterli terminare in tempo prima della partenza. In questa prima fase il malcapitato freelance solitamente riesce bene o male a tenere sotto controllo l’ansia da vacanze ripetendosi come mantra frasi come queste: “Quest’anno ho lavorato tanto e merito di staccare la spina per un po'” o “Sono certo che il cliente mi rimarrà fedele”, ecc.

Purtroppo però la terapia di autoconvincimento a un certo punto perde efficacia e il primo picco si registra solitamente il giorno prima della partenza, al momento dell’impostazione della risposta automatica in caso di assenza. In quel momento il freelance viene assalito dalle sue più grandi paure: “Ci ho messo tanto a fidelizzare i miei clienti e ora li perderò tutti!”, “Mi offriranno il progetto della vita e una volta rifiutato non tornerà mai più!”. Insomma, prende il sopravvento la nostra vena pessimista.

In questa fase, il colpo di grazia potrebbe essere inferto dall’offerta di un progetto interessantissimo/molto ben pagato/entrambi il giorno prima della partenza. Per i soggetti più vulnerabili la tentazione di ritardare la partenza potrebbe essere fortissima, ma cedere in quel momento equivarrebbe a imboccare la via del non ritorno, quella che porta al mare sotto l’ombrellone col PC portatile sulle gambe. Se non vogliamo ritrovarci in quelle condizioni, è bene giocare d’anticipo.

La prevenzione

Innanzitutto per prevenire l’ansia da vacanze, il freelance dovrebbe tenere sempre a mente dei concetti base.

  • Se ho seminato bene, i miei clienti non saranno motivati ad abbandonarmi per il primo che passa.
  • Il riposo è fondamentale per ricaricare le batterie e fornire un servizio sempre migliore ai miei clienti.
  • E poi non bisogna mai dimenticare la cosa più importante: il lavoro è lavoro, per quanto stimolante ed entusiasmante sia per me, e oltre a quello ho una vita da vivere.

Al di là di questi concetti teorici, ci sono anche delle strategie pratiche che il freelance può mettere in campo per prevenire l’ansia da partenza.

  • E’ fondamentale, nonché molto apprezzato, comunicare l’assenza in anticipo ai clienti più affezionati, in modo tale che possano organizzarsi di conseguenza.
  • Se arriva un progetto appena prima della partenza (in particolare se si tratta di un cliente diretto), piuttosto che limitarsi a rispondere “Non sono disponibile”, è buona norma dare il contatto di un collega. Molti freelance preferiscono non dare ai clienti il contatto diretto di un collega perché temono che il collega possa rubare il cliente, ma io invece credo che ci siano molte più probabilità che il cliente torni da noi se ci prendiamo la briga di soddisfare un suo bisogno (anche se tramite un altro collega), piuttosto che abbandonarlo al suo destino. Senza contare che quando si passa del lavoro ad un collega solitamente il collega ha piacere a ricambiare il favore.
  • Quando invece siamo irreperibili, per evitare che il cliente riceva una risposta automatica che, sì, gli comunica la nostra assenza, ma comunque non risolve il suo bisogno, un’ottima strategia potrebbe anche essere inserire nella risposta automatica in caso di assenza il contatto di un collega (vedere punto precedente). Grazie a questa strategia si può  rispondere immediatamente alla richiesta del cliente anche quando non si è reperibili, ma purtroppo non l’ho ancora testata di persona perché non ho ancora trovato una persona di fiducia e con la mia stessa combinazione linguistica, ma spero di trovarla presto.

E voi avete mai sperimentato l’ansia da vacanze del freelance? Avete altri consigli per superarla?

 

“Eastern” di Andrea Salajova

Immaginando (o sperando) che i miei lettori in questo momento siano in vacanza a godersi un po’ di riposo, il mio post di oggi è un consiglio di lettura. Si tratta di “Eastern”, romanzo d’esordio di Andrea Salajova, autrice e cineasta slovacca residente in Francia, pubblicato nel 2015 da Gallimard. Premessa fondamentale: il libro è in francese, quindi chi non conosce la lingua di Molière purtroppo, almeno per il momento, non potrà godersi il testo.

“Eastern” è la storia di Martin, un ballerino slovacco ormai trapiantato da anni a Parigi che a causa della malattia di suo nonno torna a far visita alla famiglia di origine a Michalovce, nella parte orientale della Slovacchia. Una volta a casa, accompagnato dall’amica Gabriela, si ritroverà a fare i conti con quello che è diventato e con quello che sono diventati i suoi familiari: la sorella Ivana, gelida dottoressa senza vita privata, il papà Rudolf, che sembra riservare tutte le sue attenzioni all’alcol e la nonna matriarca.

Seppur molto coinvolgenti, al di là delle vicissitudini familiari del protagonista, il motivo principale per cui consiglio il libro è che offre una prospettiva abbastanza rara per i lettori nati “al di qua del muro di Berlino” sulla cultura slovacca, in particolare la Slovacchia dell’est, ed analizza le ripercussioni delle rapide trasformazioni che la società si è ritrovata ad affrontare dopo il collasso dell’Unione Sovietica e l’arrivo a gamba tesa del capitalismo.

Se sono riuscita a solleticare il vostro interesse ecco qualche link:

  • Scheda del libro con estratto
  • Lettura di un estratto del libro fatta dall’autrice
  • Per chi volesse comprare il libro, consiglio di ordinarlo in libreria (io l’ho ordinato alla Feltrinelli) o di comprarlo su internet in formato cartaceo o e-book tramite i-Tunes o Amazon.

Buona lettura e buona estate!

 

Crediti fotografia: Gallimard