Manifestante ucraina

Come si chiama la capitale dell’Ucraina?

Le terribili notizie degli ultimi dieci giorni hanno giustamente portato al centro della ribalta l’Ucraina. Ormai anche i non specialisti di quella zona del mondo hanno un’idea di dove si trovino le principali città del paese dell’Europa dell’Est. In particolare, i riflettori sono puntati sulla capitale dell’Ucraina, che in italiano viene convenzionalmente chiamata Kiev.

Tuttavia il modo in cui chiamiamo la capitale ucraina è basata sulla traslitterazione russa “Киев”, che si pronuncia appunto “Kiev” e che ha preso piede in occidente durante il periodo sovietico. Gli ucraini, invece, chiamano la loro città più importante “Київ”, che si pronuncia “Kyiv”.

Se nel nostro piccolo vogliamo esprimere il nostro sostegno dei confronti della popolazione ucraina, il minimo che possiamo fare è chiamare la loro capitale Kyiv, mettendo da parte la versione associata alla russificazione forzata.

Per chi volesse approfondire il tema, consiglio questo articolo del Guardian.

La gestualità dell’interprete

La prossima volta che vi capita di andare ad una conferenza internazionale con un servizio di interpretazione simultanea multilingue provate a fare un test: osservate tutte le cabine, soffermandovi sulla gestualità utilizzata dagli interpreti al lavoro nelle diverse lingue. Scommettiamo che la cabina italiana sarà quella più effervescente?

Stereotipi a parte, come scrivevo in un post di qualche anno fa, noi italiani proprio non ce la possiamo fare: gesticolare fa proprio parte della nostra natura, anche se chi ci ascolta in cuffia in teoria non può vederci, e quindi non può “beneficiare” della comunicazione veicolata dai nostri gesti. Ma è accettabile che un interprete gesticoli?

Cerchiamo di fare un distinguo tra i vari contesti. Se stiamo lavorando in cabina di simultanea, a meno che non diventiamo molesti con il nostro compagno di cabina (come invece accade nel video di questo post), perché mai dovremmo limitarci? Se gesticolare fa parte della nostra natura, sforzarci di non farlo richiederebbe concentrazione e autocontrollo, e dato che l’interpretazione simultanea assorbe già una grande quantità di energia, dal punto di vista cognitivo aggiungere un ulteriore compito costituirebbe uno spreco. Durante la simultanea ogni interprete si concentra a modo suo: c’è chi gesticola, chi scarabocchia e chi lavora a maglia. Purché si faccia un buon lavoro e non si disturbi il collega, a mio avviso è tutto permesso.

Se stiamo lavorando in consecutiva o in trattativa, situazioni in cui siamo fisicamente presenti nell’interazione, a mio avviso una certa componente non verbale può contribuire a trasmettere in maniera più incisiva il messaggio dell’oratore che stiamo traducendo, insieme al tono della voce e a tutto il resto. In questi contesti dovremmo sempre tenere a mente alcune linee guida:

  • mai esagerare: anche se qualcuno dice che gli interpreti sono attori mancati, non siamo stati chiamati per fare uno show
  • cerchiamo di attenerci alla lingua-cultura nella quale stiamo traducendo: se stiamo traducendo verso l’inglese cerchiamo di contenerci, mentre invece se stiamo traducendo verso l’italiano possiamo assecondare un po’ di più la nostra spontanea gestualità. Anche se questo “adeguamento linguistico-culturale” potrebbe sembrare in teoria un po’ complicato e forzato, in realtà col tempo diventa automatico
  • non dimentichiamo che alcuni gesti hanno significati completamente diversi in diverse culture: nel corso della nostra formazione di interpreti è importante diventare consapevoli di queste differenze. Nel dubbio, meglio adottare il principio di cautela e tenere le mani impegnate (una con il blocco degli appunti e una con la penna)

Se invece stiamo lavorando in chuchotage, per non disturbare gli altri partecipanti e il relatore, oltre a tenere basso il volume della voce (non a caso si chiama chuchotage o interpretazione sussurrata), è bene limitare al massimo la gestualità.

Ma lei è traduttrice certificata?

In questo post vorrei rispondere a una domanda che mi viene posta molto spesso da clienti italiani che hanno bisogno di far tradurre documenti da consegnare ad autorità straniere.

Facciamo un esempio concreto: Mario Rossi ha conseguito una laurea in un’università italiana e vuole partecipare a un bando per un dottorato di ricerca nel Regno Unito. L’università che ha indetto il bando gli chiede di allegare alla domanda di dottorato tutta una serie di documenti, come ad esempio il diploma di laurea e il piano di studi con gli esami sostenuti. Questi documenti sono ovviamente in italiano e, a meno che non possano essere rilasciati dall’università italiana direttamente in inglese, occorre tradurli in inglese.

A questo punto della storia la strada di Mario Rossi incrocia la mia: mi contatta e mi chiede di tradurre questi documenti, precisando che l’università britannica ha chiesto che i documenti vengano fatti tradurre da un traduttore certificato. Ecco quello che rispondo tipicamente a Mario Rossi.

In molti Paesi esiste la figura del traduttore certificato o giurato: i professionisti registrati come tali appongono in calce alla loro traduzione il loro timbro personale, ufficialmente registrato presso l’autorità competente, con cui certificano la fedeltà e l’accuratezza della traduzione.

In Italia, invece, non esiste un registro di traduttori certificati, né giurati. Esiste però la possibilità di ottenere traduzioni giurate, dette anche asseverate. Asseverare una traduzione vuol dire che il traduttore prepara un plico con il documento di partenza, la traduzione e un apposito modulo e giura davanti a un pubblico ufficiale (in Tribunale o dal Giudice di Pace) che la traduzione è fedele e accurata. Giurando e firmando il modulo di asseverazione, il traduttore si assume una responsabilità penale.

Una traduzione asseverata ha costi più alti rispetto a una traduzione standard, sia perché vanno aggiunte delle marche da bollo, sia perché, assumendo una responsabilità penale, nel preventivo il traduttore aggiunge ai costi di traduzione standard un extra.

Una volta illustrata questa differenza nei diversi sistemi nazionali, consiglio a Mario Rossi di chiedere all’autorità a cui andranno consegnate le traduzioni di riferire quanto spiegato e di verificare se ha dunque bisogno di una traduzione asseverata secondo il sistema italiano o se è sufficiente una traduzione standard.

Secondo la mia esperienza, a volte le autorità a cui sono destinate le traduzioni optano per soluzioni di compromesso come una semplice dichiarazione su carta semplice in cui come traduttrice dichiaro di aver tradotto i documenti in maniera accurata. In altri casi mi è stato chiesto di allegare un documento che attestasse il fatto che sono una traduttrice professionista, e in questo caso ho allegato la mia tessera di socia all’associazione professionale di interpreti e traduttori a cui sono iscritta.

Ma il ceco e lo slovacco non sono la stessa lingua?

Ho perso il conto delle volte che ho dovuto rispondere a questa domanda, che arriva puntualmente ogni volta che chi non mi conosce scopre che tra le mie lingue di lavoro c’è lo slovacco. Devo dire che però lo faccio sempre volentieri, perché la vedo come una manifestazione di interesse nei confronti di una lingua considerata “minore”. Diversa è invece la sensazione che mi pervade quando sento confondere la Slovacchia con la Slovenia (ma su, dai!).

Ma torniamo a bomba. La confusione linguistica è certamente data dal fatto che fino al 1992 cechi e slovacchi sono stati cittadini di uno stesso Stato, la Repubblica Ceco-Slovacca, e nell’immaginario comune a uno Stato corrisponde una lingua. Tuttavia non è sempre stato così. Semplificando di molto la complessa storia del secolo scorso, ecco quattro date di riferimento:

  • 1918: in seguito alla dissoluzione dell’Impero Austro Ungarico, che comprendeva Cechia e Slovacchia, viene fondata la prima Repubblica Ceco-Slovacca
  • 1939: l’esercito tedesco invade la Cecoslovacchia, le cui diverse regioni vengono spartite tra gli Stati vicini
  • 1945: al termine della Seconda Guerra Mondiale viene rifondata la Cecoslovacchia, posta sotto l’influenza dell’Unione Sovietica
  • 1992: in seguito al crollo dell’Unione Sovietica e alla Rivoluzione di Velluto, la Cecoslovacchia si divide in due Stati indipendenti: Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca

Da questo breve excursus storico si evince che Cechia e Slovacchia sono state molto più a lungo separate che unite sotto la stessa bandiera, e infatti ceco e slovacco sono due lingue ben distinte. Detto questo, non si può negare che siano lingue molto simili: è come se fossero due gemelli eterozigoti. Per dare un’idea di quanto siano imparentate, solitamente dico che sono molto più simili di quanto lo sono italiano e spagnolo. Infatti slovacchi e cechi si sentono tuttora “cugini” e riescono a comunicare perfettamente tra loro, parlando ciascuno nella propria lingua.

La generazione nata durante la Repubblica Ceco-Slovacca dice che oggi i giovani slovacchi capiscono il ceco sempre meno (e viceversa), ma in generale la comprensione è ancora abbastanza buona. Nelle trasmissioni radio o TV slovacche ci sono spesso ospiti cechi (e non c’è l’interprete), al cinema o a teatro può capitare che lo spettacolo sia in lingua ceca (senza che la cosa venga  preventivamente segnalata, in quanto ritenuta normale), e non è raro che gli studenti slovacchi studino utilizzando libri cechi. Da non madrelingua slovacca io invece ho molte più difficoltà col ceco: lo capisco abbastanza quando lo leggo e riesco a sostenere piccole conversazioni, ma non accetto mai lavori con il ceco perché la pronuncia è completamente diversa dallo slovacco e alcuni termini cambiano completamente.

E per finire un piccolo gioco per voi: ecco un video dell’edizione 2018 del programma televisivo Česko-Slovensko má talent (equivalente di Italia’s Got Talent) con concorrenti provenienti da entrambi gli Stati e una giuria mista. Riuscite a distinguere chi parla in ceco e chi in slovacco?

Risposte al quiz

  • Concorrente: slovacca (da notare che, pur essendo una bambina, non ha alcuna difficoltà a capire il ceco)
  • Giurato 1 (da sinistra): ceco
  • Giurata 2: (non si sa perché dice solo “áno, che vuol dire “sì” in entrambe le lingue)
  • Giurata 3: ceco
  • Giurato 4: slovacco

Il film slovacco “The Teacher”

Il 7 settembre è uscito in nelle sale italiane il film slovacco The Teacher: una lezione da non dimenticare, del regista Jan Hřebejk. La storia, ambientata nel 1983 in una Bratislava ancora sotto forte influenza sovietica, ha come protagonista una maestra che sfrutta la sua posizione di potere per trarre vantaggi personali, concedendo voti generosi agli studenti in cambio di favori da parte dei loro genitori.

Al di là della vicenda, che non può lasciare nessuno spettatore indifferente, soprattutto pensando al fatto che è ispirata a fatti veri, quello che ho apprezzato di più del film è la rappresentazione del clima di quegli anni. Ovviamente, per ragioni anagrafiche e geografiche, non ho un’esperienza personale della vita nella Cecoslovacchia degli anni ’80, ma mi è capitato molte volte di sentire racconti di chi ha vissuto quel periodo, in cui per molti regnava il costante sospetto e la paura di ritorsioni per qualsiasi azione “non conforme”, una fase storica forse ancora non del tutto metabolizzata dalla società slovacca. Lo stile del film ricorda un po’ quello adottato da Michaela Sebokova inDal diario di una piccola comunista: racconta la grande Storia attraverso una piccola storia, forse meglio di molti documentari.

C’è un’unica cosa che non mi convince: il titolo della versione italiana. Il titolo originale del film è Učiteľka, tradotto letteralmente “la maestra”, “l’insegnante” o al limite “la professoressa”. Data l’età approssimativa degli studenti io avrei optato per “La maestra”. Per quale motivo tradurlo in inglese e per di più aggiungere di sana pianta un sottotitolo (a mio avviso) totalmente fuorviante? Non so a voi, ma “Una lezione da non dimenticare” in me evoca atmosfere allegre e gioiose, mentre invece il film, pur regalando molti momenti divertenti, è fatto principalmente di tinte fosche.

Ecco qui il trailer doppiato in italiano:

 

E in slovacco con i sottotitoli in inglese per i puristi 🙂

Foto locandina: My Movies

Interpretare una cerimonia nuziale

Questa settimana mi è capitato di fare da interprete in un contesto che ancora non avevo sperimentato: una cerimonia nuziale. E’ stata un’esperienza molto interessante e stimolante, sia dal punto di vista linguistico che da quello della gestione dell’interazione. Mi spiego meglio.

Dal punto di vista linguistico per interpretare un matrimonio (religioso) bisogna avere familiarità con i testi biblici, le preghiere e le formule utilizzate durante il rito in entrambe le lingue con cui stiamo lavorando. Non è un’impresa facile perché generalmente non usiamo la terminologia religiosa nella vita di tutti i giorni e perché la sintassi utilizzata nei testi sacri è generalmente più ampollosa di quella comune.

Però ci sono alcune buone notizie. La prima è che gran parte della cerimonia nuziale segue uno schema prevedibile (scambio degli anelli, eucarestia, Padre Nostro, ecc.), quindi possiamo preparaci in anticipo. La seconda buona notizia è che la Bibbia è il libro più venduto e tradotto al mondo, quindi abbiamo a disposizione una grandissima quantità di materiale da cui prendere tutto ciò che ci occorre praticamente in tutte le lingue del mondo.

C’è però una parte della messa che (almeno si spera) è unica per ogni cerimonia: l’omelia del sacerdote. Solitamente durante l’omelia vengono ripresi ed ampliati i concetti che sono stati introdotti durante la lettura del Vangelo, ma ogni sacerdote ha il suo estro, quindi è sempre utile saggiare il terreno e provare a chiedergli prima dell’inizio della cerimonia qualche anticipazione.

Dal punto di vista della gestione dell’interazione, la parte più impegnativa è svolgere il lavoro per cui siamo stati chiamati cercando di fare da terzo incomodo il meno possibile, compito molto arduo se, come nel mio caso, lavoriamo con la tecnica dello chuchotage o interpretazione sussurrata, che impone di essere a pochi centimetri dal committente. Non dobbiamo mai dimenticare che il matrimonio è una giornata unica per gli sposi e visto che non è il caso di comparire su tutte le fotografie, per non essere d’intralcio può essere utile fare qualche passo indietro quando non c’è bisogno di tradurre (ad esempio al momento dello scambio degli anelli).

Un altro compito che potremmo essere chiamati a svolgere è di natura più interculturale. In fatto di matrimoni le tradizioni variano moltissimo e potremmo dover intervenire per spiegare una certa tradizione agli ospiti stranieri che non stanno capendo cosa succede. Nel mio caso, lo sposo era americano e in quanto tale si aspettava di essere accompagnato all’altare dalla nonna, ma nel momento in cui stava per attraversare la navata insieme alla nonna si è reso conto che non c’era nessuno a guardarlo perché gli invitati (italiani, quindi ignari della tradizione che stava seguendo) erano tutti fuori ad aspettare l’arrivo della sposa, come da tradizione in Italia.

Per chi dovesse ritrovarsi alle prese con questo tipo di incarichi, ecco i miei consigli:

  • chiedere in anticipo agli sposi il libretto del matrimonio o comunque le letture e le formula scelte
  • concordare con gli sposi esattamente quali parti della cerimonia vogliono che traduciamo
  • verificare la pronuncia dei nomi che compaiono nei testi sacri (apostoli, libri della Bibbia, ecc) nella lingua straniera
  • sarebbe utile imparare a memoria le preghiere più comuni per evitare di leggere sempre dai nostri appunti durante la cerimonia
  • parlare col prete prima dell’inizio della cerimonia per chiedergli anticipazioni sull’omelia e per invitarlo a non parlare troppo velocemente
  • studiare la nostra postazione (sia per quando gli sposi sono seduti, sia quando sono in piedi)

Per chi volesse un po’ di materiale, ecco qualche link:

Infine, ecco il link al mio glossario ancora in divenire italiano-inglese con formule liturgiche relative al matrimonio e altri termini biblici.

“Eastern” di Andrea Salajova

Immaginando (o sperando) che i miei lettori in questo momento siano in vacanza a godersi un po’ di riposo, il mio post di oggi è un consiglio di lettura. Si tratta di “Eastern”, romanzo d’esordio di Andrea Salajova, autrice e cineasta slovacca residente in Francia, pubblicato nel 2015 da Gallimard. Premessa fondamentale: il libro è in francese, quindi chi non conosce la lingua di Molière purtroppo, almeno per il momento, non potrà godersi il testo.

“Eastern” è la storia di Martin, un ballerino slovacco ormai trapiantato da anni a Parigi che a causa della malattia di suo nonno torna a far visita alla famiglia di origine a Michalovce, nella parte orientale della Slovacchia. Una volta a casa, accompagnato dall’amica Gabriela, si ritroverà a fare i conti con quello che è diventato e con quello che sono diventati i suoi familiari: la sorella Ivana, gelida dottoressa senza vita privata, il papà Rudolf, che sembra riservare tutte le sue attenzioni all’alcol e la nonna matriarca.

Seppur molto coinvolgenti, al di là delle vicissitudini familiari del protagonista, il motivo principale per cui consiglio il libro è che offre una prospettiva abbastanza rara per i lettori nati “al di qua del muro di Berlino” sulla cultura slovacca, in particolare la Slovacchia dell’est, ed analizza le ripercussioni delle rapide trasformazioni che la società si è ritrovata ad affrontare dopo il collasso dell’Unione Sovietica e l’arrivo a gamba tesa del capitalismo.

Se sono riuscita a solleticare il vostro interesse ecco qualche link:

  • Scheda del libro con estratto
  • Lettura di un estratto del libro fatta dall’autrice
  • Per chi volesse comprare il libro, consiglio di ordinarlo in libreria (io l’ho ordinato alla Feltrinelli) o di comprarlo su internet in formato cartaceo o e-book tramite i-Tunes o Amazon.

Buona lettura e buona estate!

 

Crediti fotografia: Gallimard